La relazione del segretario nazionale all’Assemblea del Partito Democratico a Roma:
Siamo davanti al Paese e ad un Paese molto, molto turbato. Oggi parleremo dunque di Italia, parleremo di politica e parleremo di Partito Democratico in quanto utile ad una buona politica per l’Italia. Stiamo vivendo il tempo della grande crisi, la più grande dal dopoguerra, che ci accompagnerà per un tempo non breve e secondo un percorso che nessuno oggi, in verità, è in grado di descrivere o prevedere. Un tempo non ordinario, un tempo di grande responsabilità. Abbiamo recentemente tenuto una Direzione nazionale molto importante. L’abbiamo tenuta dopo il risultato non scontato e davvero straordinario delle elezioni amministrative. Unanimemente, abbiamo detto in quella Direzione: tocca a noi. “Tocca a noi” non è una pretesa. È una assunzione di responsabilità. È un impegno a portare la nostra forza, a investire la nostra forza sul punto principale della questione italiana: il governo della lunga crisi e quindi il rapporto fra politica e società, essendo evidente che non può esserci governo della crisi in presenza di un generale discredito della politica.
Qui siamo già di fronte a un dilemma europeo. Nella lunga crisi si vanno formando e riassestando in tutta Europa i grandi orientamenti della pubblica opinione e i movimenti della politica. Non c’è dubbio che l’Europa, dopo la cura decennale della destra, sta affrontando la crisi senza la materia prima fondamentale, quella cioè della solidarietà e della cooperazione.
Ci accorgiamo che non è solo questione di interessi, ma è questione di senso comune, di ideologia. Senza quella materia prima (la reciprocità, la cooperazione, il destino comune) le ricette non possono essere generose. Le ricette sono quelle di una ortodossia imposta da chi è più al riparo, e quindi seccamente difensive, con il primato affidato a politiche restrittive che danno via libera sia alla recessione sia a fenomeni di radicalizzazione e di distacco dalla politica.
In altre parole e in ultima analisi: si sta uccidendo la fiducia, l’idea stessa che si possa uscire dai problemi. Chi scommette contro l’Euro e vuol guadagnarci, alza la posta tutti i giorni e sceglie i punti di leva più favorevoli per ribaltare il carro.
E uno dei punti di leva siamo noi, è l’Italia. Come ci ha ricordato il Governatore di Banca d’Italia più della metà del nostro spread è in realtà giocato contro l’Euro. E perché mai dovrebbe finire il gioco, se dopo un vertice europeo pur positivo, dal giorno dopo la tela di Penelope ricomincia a disfarsi? E intanto 100 punti di spread ci costano 3 miliardi all’anno e quei miliardi li inseguiamo con manovre e le manovre incoraggiano una recessione che sarà quest’anno fra il 2 e il 3 per cento.
Una cosa mai vista. Chi scommette sulla disarticolazione dell’Euro ricava di riflesso un aiuto enorme dall’estendersi di aree di scetticismo e di rifiuto all’interno della zona Euro e più largamente nei paesi dell’Unione. Nella crisi infatti si affaccia in Europa una questione democratica. Se ne parla troppo poco, davvero troppo poco. Non vado qui nel dettaglio, ma se consideriamo paesi come Gran Bretagna, Francia, Irlanda, Olanda, Danimarca, Grecia, Polonia, Finlandia, Ungheria, Norvegia, Belgio, Austria e guardiamo i più recenti dati elettorali o le più recenti rilevazioni noi vediamo ovunque, per tacere dell’Italia, formazioni politiche che, pur in diverso grado, sono antieuropee, antieuro, anti-Islam, spesso xenofobe e quasi sempre a impronta populista.
In alcuni casi si tratta dichiaratamente di formazioni neofasciste o neonaziste. Siamo a pochi giorni dall’anniversario di Utoya e non possiamo toglierci dalla mente quelle ragazze e quei ragazzi sterminati da una ideologia sanguinaria.
Queste formazioni si muovono in dimensioni che valgono o il 7, o il 12 o il 20, o il 25 per cento dei consensi e sono in grado, ecco il punto, di condizionare fortemente e di paralizzare le posizioni delle destre liberali ed europeiste. Ad esempio il progressivo coagulo di posizioni euroscettiche in Germania (già ieri nei liberali tedeschi e oggi nei cristianosociali bavaresi e nella destra CDU) la dice lunga sulle dinamiche in corso.
Ecco allora il punto politico di fondo: se crescono fenomeni di grave sbandamento e regressione, se si alzano messaggi populisti che possono nascere in luoghi diversi ma finiscono sempre a destra; se questi fenomeni hanno a che fare con una crisi che sarà ancora lunga e incerta e se conveniamo che è assurdo e distruttivo affidarsi sempre a una doppia verità, per cui ciò che va verso l’Europa lo si fa in segreto per poi raccontarlo al ribasso ad una opinione pubblica sempre più scettica, allora è necessario concludere che bisogna finalmente andare in campo aperto, alzare le bandiere e combattere davvero.
I Progressisti in Europa e in Italia hanno il dovere di unirsi credibilmente; hanno il dovere di impugnare, oltreché la questione sociale, la questione democratica e di rivolgersi a tutte le forze che credono ad una prospettiva europea, ai grandi valori delle Carte Costituzionali e ai fondamenti stessi della civilizzazione europea; hanno il dovere di proporre alle forze europeiste una vera e propria costituente europea.
Tutto questo, anche in Italia e forse in Italia più che in ogni altro Paese, è il senso di fondo del progetto e della proposta politica. Il resto è cronaca, una cronaca che spesso purtroppo finisce nel chiacchiericcio e nel pettegolezzo politico.
Ma quel che sta passando stavolta non è la cronaca, è la storia! Succedono cose che non si sono mai viste. La società le percepisce. Un piccolo imprenditore le percepisce. Un esodato le percepisce. Bisogna dare prova che lo percepiamo fino in fondo anche noi e che non ci stiamo guardando la punta delle scarpe. Nei prossimi mesi dovremo parlare all’Italia e risvegliare non un sogno ma una ragionevole fiducia, una speranza fondata. Mettendoci all’attacco.
Perché mai, non dico uno speculatore, ma un onesto risparmiatore del modo dovrebbe prestarci soldi se in Italia prendesse voti chi dice (un giorno sì e l’altro no) che bisogna uscire dall’Euro, scherzando con la prospettiva di un drammatico impoverimento di milioni e milioni di persone; o se prendesse voti chi dice che non dobbiamo pagare i debiti.
Perché mai quel risparmiatore dovrebbe aver fiducia nell’Italia se l’Italia di nuovo scegliesse la strada dell’eccezionalismo, di soluzioni sconosciute alle democrazie del mondo? Liste di fantasia, partiti per procura, leadership invisibili e senza controllo o (sono notizie di questi giorni) agghiaccianti ritorni? Perché se gli italiani scelgono soluzioni avventurose o disperate gli altri dovrebbero scommettere su di noi?
Tocca a noi. Tocca a noi risvegliare una riscossa democratica e civica, il senso di una responsabilità comune, l’orgoglio di essere italiani ed europei, l’idea di una politica fatta di gente seria, sobria e perbene; di una politica che conosce la vita comune, la frequenta, la sa interpretare. Dunque, una risposta democratica, civica, riformatrice. E una risposta di governo.
Con questa ispirazione e con questa tensione noi dobbiamo nei prossimi mesi sorreggere la transizione e accendere la prospettiva. Non ci è facile sorreggere la transizione. E guai se, nel riaffermare la nostra lealtà, noi perdessimo il contatto con il disagio forte che c’è nel Paese e lo abbandonassimo a pericolose derive.
Questo non deve significare mai mettersi in coda al disagio. Deve significare parlare al disagio e offrirgli una possibilità, una prospettiva. E ricordare innanzitutto chi ci ha portati fin qui, a questo punto della crisi economica e sociale e del rapporto fra politica e società: dieci anni disastrosi del Governo berlusconiano e leghista, dieci anni di favole e di svago, dieci anni conclusi con un patto di emergenza stretto con l’Unione Europea, non da Monti, ma da Berlusconi e Tremonti, un patto di cui mese dopo mese sentiamo il peso drammatico.
L’ho già detto: il pompiere può anche fare degli errori ma non è lui che ha appiccato il fuoco e sarebbe curioso che colui che ha appiccato il fuoco si permettesse adesso di fare le pulci al pompiere che comunque ha impedito che il fuoco dilagasse.
Noi, che ci stiamo caricando di responsabilità non nostre in nome della salvezza del Paese, noi che siamo ancora minoranza in questo Parlamento, noi abbiamo non solo il diritto ma anche il dovere di dire sempre quel che faremmo e quel che faremo davanti a misure, provvedimenti o riforme che non corrispondono o corrispondono solo in parte al nostro pensiero.
Questo vale oggi per la cosiddetta spending review. La formula contiene una sfida che raccogliamo e che raccoglieremo. Noi non siamo il partito delle tasse. Nel provvedimento ci sono contenuti che condividiamo, che sono anche nostri e che vogliamo anzi rafforzare e che riguardano la semplificazione istituzionale e il peso della pubblica amministrazione.
Ma per quello che riguarda i servizi reali alle persone, sanità, servizi locali, istruzione e cultura noi siamo per correggere e alleggerire per non aggravare una situazione già molto deteriorata.
E continuo a dire che qualcosa bisogna pur fare per muovere l’economia e contrastare la recessione. I pagamenti alle imprese, un po’ di investimenti da affidare ai Comuni, qualche misura più forte per sollecitare la mobilitazione del risparmio privato sulla casa, sul risparmio energetico, sull’agenda digitale.
Vedo che, in mezzo a tutti questi problemi, si sta aprendo una discussione singolare sul tasso di continuità o di discontinuità auspicabili rispetto a questa transizione. Non capisco il dilemma. Si intende, ad esempio, che si dovrà tenere l’asse di una ferma presenza dell’Italia nella prospettiva Europea, che bisognerà tenere i conti a posto, prendersi delle responsabilità, mettere competenza, rigore, autorevolezza nell’azione di Governo?
Sì, è così, non c’è dubbio! Tutto questo dal ’94 ad oggi sta nel DNA della nostra cultura di governo ben conosciuta e sperimentata in Europa. Significa invece che noi avremmo fatto le pensioni proprio così, l’IMU proprio così, il mercato del lavoro proprio così, le liberalizzazioni proprio così, la spending review proprio così?
Significa che dovremmo rinunciare a ribaltare la vergognosa situazione della RAI, ad avere una legge contro la corruzione, a regolare civilmente la cittadinanza, ad avere un rapporto ben diverso con gli Enti locali, e così via? Penso proprio di no.
Inviterei a non cadere sempre nella ricerca di punti di distinzione, a volte, lasciatelo dire al Segretario, un po’ metafisici, stucchevoli e fastidiosissimi per la nostra gente.
È evidente che la questione centrale non è certo Monti. La questione centrale è la base politica e parlamentare di un Governo. Questo è il problema. E qui siamo al punto sul quale dobbiamo intenderci e farci intendere. Il nostro Paese ha il diritto o no di respirare con i polmoni con cui respirano tutte le democrazie?
Lo so bene. Nella vita si fa quel che si può, e questa fase lo dimostra; ma è importante sapere ciò che si vuole e dove si vuole andare. L’Italia ha il diritto o no di costruire un bipolarismo saldamente costituzionale, temperato, flessibile che metta a confronto comunque progetti alternativi per il Paese? E aggiungo a questo una considerazione attuale più dirimente e più cogente ancora.
Con il prossimo appuntamento elettorale o si descriverà una scelta fra progetti, forze politiche e campi di forze, aperti fin che si vuole ma alternativi, o l’alternativa si rischia di farla fra populismi e resto del mondo. Chi sottovaluta questo rischio, secondo me, non coglie il profondo sommovimento che c’è nel Paese e non legge correttamente l’evoluzione della crisi.
E qui siamo alla legge elettorale. Se ne discuterà in Parlamento, anche se la strada è intralciata dalla beffa costituzionale di PDL e Lega che stanno mettendo la riforma costituzionale in un vicolo cieco. Buttano la palla in tribuna per pure ragioni propagandistiche col rischio evidente di bloccare ogni elemento possibile e sensato di riforma.
Dichiaro qui a questo proposito che noi siamo pronti a stralciare almeno la norma sulla riduzione del numero dei parlamentari. Il ogni caso, di legge elettorale si discuterà e l’oggetto del contendere non è affatto oscuro. Abbiamo da parte della destra una preclusione verso il doppio turno di collegio. Per noi resta la proposta migliore. L’abbiamo da mesi depositata in Parlamento.
Noi partiamo da lì. Davanti alle preclusioni della destra non ci arrendiamo all’idea di tenerci il porcellum che, lo abbiamo ripetuto mille volte, è una causa principe del discredito della politica. Siamo pronti a ragionare su soluzioni di compromesso ma non a rinunciare a due principi.
Primo: i cittadini, e non solo quelli italiani, la sera delle elezioni devono sapere chi è in grado di organizzare e garantire credibilmente la governabilità e quindi chiediamo un credibile premio di governabilità. Questo è il principio. Un premio che a nostro avviso deve essere attribuito a chi arriva primo sia nella forma di una lista singola sia nella forma di liste collegate.
Secondo: il cittadino deve poter decidere sul suo Parlamentare. Questo è il principio. Per noi ciò si attua nella forma del collegio, una forma nella quale i Partiti si mettono in gioco anche attraverso una persona e che consente nel tempo quel rapporto fra eletti e territorio che rinsalda una democrazia parlamentare. Questa è la posizione che noi affidiamo ai Gruppi Parlamentari nella ricerca di una soluzione.
Quanto al resto, abbiamo ribadito mille volte che nella denegata ipotesi (come direbbe un avvocato) che rimanga il Porcellum noi attiveremo meccanismi di partecipazione per le candidature che in ragione della legge elettorale che avremo siamo comunque intenzionati a promuovere.
Propongo di fermarci qui, per non dare l’impressione sbagliata di essere quelli che a parole vogliono cancellare il porcellum e nei fatti si stanno acconciando a tenerselo. Perché non è così! Noi al porcellum non ci arrendiamo! In ragione della legge elettorale ci sarà più chiaro come prospettare agli elettori quel patto di legislatura fra Progressisti e Moderati che resta la mostra proposta.
Una proposta, come dicevo poc’anzi, che non ha nulla di tattico o di politicista ma che ubbidisce invece ad una tendenza di fondo europea, a fronte di destre compromesse e cedevoli verso il condizionamento di pulsioni populiste e regressive.
È da queste ragioni di fondo che derivano i punti di avanzamento visibili di questa nostra proposta, una proposta che solo un anno fa veniva descritta dai più come illusoria. Detto questo, a noi tocca prima di tutto organizzare il campo dei democratici e progressisti.
Così come si è deciso in Direzione, lo faremo partendo da fondamentali contenuti di cui adesso parlerò e lo faremo non restringendo l’appello alle forze politiche ma allargandolo invece alle cittadinanze attive, ad associazioni e movimenti, agli amministratori, a personalità che si ritengono parte dell’area progressista.
Toccherà necessariamente al PD attivare questo confronto. Lo farò a nome vostro attorno a pochi ed essenziali concetti, figli dei nostri valori e tali da esprimere coerenza con lo sforzo programmatico che abbiamo largamente svolto in questa stessa Assemblea Nazionale.
In partenza, non ci perderemo in dettagli programmatici ma apriremo la discussione su quei cardini del progetto che possono delineare il campo dei democratici e progressisti e che lo fanno riconoscibile rispetto ad altre ispirazioni. Diremo cose che si dovranno capire. Diremo prima di tutto che l’Italia ce la farà, che ritroverà il suo posto nel mondo, che riconquisterà il suo futuro.
Diremo che per noi è la buona politica che deve accompagnare la riscossa del Paese; che abbiamo idee per legare il necessario rigore al cambiamento, all’equità, al riavvio della crescita; che non immaginiamo il destino dell’Italia fuori dall’Europa da costruire, fuori dai capisaldi della civilizzazione europea, fuori da una solidarietà attiva con chi nel mondo cerca la libertà, la dignità, i diritti, a cominciare dai popoli che vivono alla porta di casa nostra.
Diremo che siamo per una democrazia che rifiuta ogni scorciatoia e ogni primato del consenso sulle regole. Una democrazia saldamente costituzionale e che si allarga al civismo e alla partecipazione popolare, perché per noi il contrario di “populista” è “popolare”.
Una politica che rivendica il suo ruolo ma riduce i suoi confini e conosce i suoi limiti. Una politica più sobria, meno invasiva e che costi meno, e che faccia vedere che se gli italiani devono tirare la cinghia la politica deve tirarla di più. Una politica che possa riformarsi anche attraverso una legge seria sui partiti. E una riforma delle istituzioni e della seconda parte della Costituzione nella logica di un sistema parlamentare efficiente e meno ridondante e pletorico; di un federalismo ben fondato; di un ruolo incisivo del Governo, di una funzione di equilibrio del Presidente della Repubblica.
Apriremo la strada ad un meccanismo che, prendendo lezione dai fallimenti di trent’anni, consenta davvero di venirne a capo e di dare concreto valore costituente alla prossima legislatura. Tutto questo in ossequio ai fondamenti della nostra Costituzione, che è la più bella del mondo. Diremo dell’Europa, che è casa nostra. Non c’è destino per l’Italia se non c’è destino per l’Europa e l’Italia deve essere protagonista del destino europeo. Questo destino si gioca nella lunga crisi.
Se l’Europa si salva, si salva solo con risposte cooperative e comuni; quelle risposte inevitabilmente portano con sé convergenze economiche e fiscali ; quelle convergenze inevitabilmente portano con sé l’esigenza di rispondere al tema democratico.
Dunque, Istituzioni europee rappresentative, un Parlamento pienamente responsabile, un Governo legittimato, formazioni politiche europee. Affermiamo la primaria responsabilità dell’eurozona nel costruire il nuovo processo mantenendo le promesse inevase della moneta unica; perché se non si va avanti, si va indietro e indietro c’è un precipizio storico.
Legislatura costituente dunque per l’Italia e per l’Europa e la chiamata a raccolta in Italia e in Europa di tutte le forze disponibili. Qui c’è il punto di discrimine fra noi e le destre. Le destre hanno messo sull’altare l’infallibilità e la libertà assoluta del liberismo finanziario promettendo poi una egoistica difesa dai suoi effetti alle nazioni, ai territori, alle corporazioni, e perfino alle etnie.
È questa la radice dei populismi che ci disarticolano e che attaccano al cuore non solo l’economia ma i capisaldi della civiltà europea. Noi siamo contro sia al liberismo finanziario sia al populismo.
Diremo del lavoro. Il lavoro come cuore del progetto. Il lavoro dei produttori, delle persone che creano, pensano, operano, fanno impresa. Il lavoro che oltre all’antagonismo classico fra operai e impresa sta subendo una nuova forma di sfruttamento per garantire i guadagni e i lussi vergognosi della rendita finanziaria. E allora l’alleggerimento fiscale a carico di rendite di gradi patrimoni finanziari e immobiliari. E allora il contrasto alla precarietà ed alla competizione al ribasso. E allora la rottura della spirale perversa fra bassa produttività e compressione dei salari e dei diritti e la promozione di una migliore democrazia del lavoro. E l’occupazione femminile e giovanile, in particolare nel Sud, come misuratore dell’efficacia di tutte le politiche.
Arriveremo a tutto questo recuperando competitività, lavorando su tutti i fattori di innovazione e modernizzazione favorendo una ripresa degli investimenti delle imprese.
Diremo del sapere e del primato delle politiche dell’istruzione e della ricerca e del contrasto alla drammatica caduta della domanda d’istruzione: l’abbandono scolastico, la riduzione delle iscrizioni all’Università, la dilagante sfiducia dei ricercatori; e la graduale riscossa della organizzazione e dei livelli di qualità dell’offerta formativa.
Diremo dello sviluppo sostenibile, dell’economia reale e della sua centralità, e di come giocare al concreto l’unica carta che abbiamo per rimettere in movimento nella globalizzazione il saper fare italiano: collegare cioè in ogni campo consumi, produzione e servizi alle frontiere della qualità, delle tecnologie digitali, dell’efficienza energetica, dell’ambiente.
Diremo dell’uguaglianza, in un Paese che è diventato fra i più disuguali del mondo. Anche qui prima di tutto un tema di regolazione europea e mondiale: afferrare cioè la ricchezza mobiliare e immobiliare che fugge nel mondo e rifiuta il vincolo della solidarietà. E poi la ridistribuzione per via fiscale e attraverso la garanzia dei fondamentali presidi del welfare, il diritto d’accesso dei giovani ai mestieri e alle professioni, un servizio-giustizia che funzioni per i diritti e la dignità di tutti i cittadini. I divari territoriali, finalmente in una logica di reciprocità fra il nord e il sud del paese. E sopra ogni cosa il dovere, politico e morale, di guardare sempre la società con gli occhi degli ultimi.
Diremo dei beni comuni e innanzitutto della sanità, dell’istruzione, della sicurezza, campi nei quali, per noi, in via di principio, non ci può essere né povero né ricco; e poi dell’energia, dell’acqua, dei beni culturali e ambientali, beni che non lasceremo in balia del mercato ma che dovranno avere responsabilità pubblica negli obiettivi, nella padronanza dei cicli e vivere quindi in un quadro di programmazione, di regolazione, di controllo.
Diremo della libertà d’informazione, dei conflitti d’interesse, delle legislazioni antitrust in ogni area del mercato contro posizioni dominanti, rendite di posizione, disprezzo del consumatore. Diremo dei diritti, dei diritti negati a cominciare da quello fondamentale e che li muove tutti e cioè della parità di genere; della democrazia paritaria, degli stereotipi della presenza delle donne nel lavoro e nell’impresa, dell’alleggerimento e della distribuzione del carico del lavoro di cura, della violenza infame contro le donne in ambiti familiari e amicali.
Da lì cominceremo, senza fermarci lì, ma allargando lo sguardo e dicendo finalmente, come ho già detto, che un ragazzo figlio di immigrati che studia qui è un italiano. E dicendo finalmente, come ho già detto, che una coppia omosessuale ha diritto ad una dignità sociale e ad un presidio giuridico e che l’omofobia è una vergogna che va contrastata con la forza della legge.
Diremo queste ed altre cose. Non promettendo l’impossibile, non raccontando favole e senza cioè che mai possa esser messa in discussione la capacità nostra di tenere in tempi difficili la barra del rigore e di rispettare i vincoli europei che fino a quando non si modificano vanno rispettati; e di operare per alleggerire quel fardello del debito che ci zavorra.
Diremo tutto questo ma in particolare e non per ultimo, inviteremo tutti i progressisti a ragionare sulla loro responsabilità e sulla oro affidabilità. Non viviamo e non vivremo tempi ordinari. Il Governo dell’Unione ha lasciato una traccia profonda nella memoria degli italiani. Adesso c’è il PD. Dobbiamo saper mostrare che l’Italia potrà contare su un Governo e una maggioranza stabili e coesi. Ci sono dunque impegni che proporremo di sottoscrivere.
Ad esempio quello di affidare alla responsabilità del candidato Premier una composizione del Governo snella, rinnovata, competente e credibile internazionalmente; quello di consentire una cessione di sovranità e cioè di sciogliere controversie su atti rilevanti attraverso votazioni a maggioranza dei gruppi parlamentari in seduta congiunta; quello di rispettare gli obblighi internazionali che valgono sempre finché non si modificano; quello di sostenere l’azione del Governo per la difesa della moneta unica e per la costruzione europea; quello di avanzare una proposta comune verso tutte le forze democratiche ed europeiste disposte a contrastare la deriva berlusconiana e leghista ed ogni forma di regressione populista; quello di mostrare nel campo progressista una civiltà di rapporti che renda davvero credibile agli occhi degli italiani la promessa di governabilità.
Voglio dirlo subito: non tutti questi elementi sono acquisiti, ma io propongo di tenerli ben fermi. Attorno a questi fondamentali elementi chiedo all’Assemblea il mandato a promuovere una discussione larga e aperta nel Partito e con i protagonisti politici, sociali e civici del campo progressista.
Sulla base di questo confronto è nostra intenzione determinare un grande appuntamento di partecipazione per la scelta del candidato dei progressisti alla guida del Governo. Le primarie non le faremo da soli e dunque i tempi e i modi non li possiamo decidere da soli. Lasciatemelo dire con chiarezza: non si parlerà del PD, non sarà il congresso del PD. Si parlerà di Italia e di governo del Paese.
Tuttavia possiamo certamente dire quali criteri proporrà il PD per delle primarie da tenersi, come è logico, in una ragionevole distanza dalle elezioni e cioè entro la fine dell’anno. A questo proposito dalla Direzione è venuto un criterio di apertura, un criterio che suggerisce di privilegiare l’allargamento della partecipazione piuttosto che l’allestimento di barriere.
Sono personalmente molto convinto di questo criterio che corrisponde all’idea di investire, anche rischiando qualcosa, sul rapporto fra politica e società che oggi è largamente in crisi. In nome di questa stessa logica, mentre ho ritenuto giusto dichiarare da subito la candidatura del Segretario del Partito Democratico, anche in ossequio alle nostre regole statutarie, ho chiesto e chiedo tuttavia che questa non sia in via di principio una candidatura esclusiva.
Avremo dunque modo, nel tempo giusto, subito dopo la ripresa, di investire l’Assemblea dei temi regolamentari e statutari e di prendere assieme le decisioni conseguenti.
Chiarito tutto questo, chiarito il percorso e a conclusione di questa relazione io invito con molta forza il gruppo dirigente a non disperdere in queste settimane la chiave giusta del nostro rapporto con il Paese. Qui noi non stiamo aprendo le primarie. Stiamo decidendo un percorso. Credo di aver chiarito quale sia il compito immediato che abbiamo: reggere e interpretare la transizione e cominciare ad illuminare una prospettiva di nuovo governo del Paese.
La vita comune degli italiani sta subendo dei colpi e devo dire francamente che non arrivano buone notizie per l’immediato futuro. La preoccupazione di tanti scivola spesso verso l’ansia e la paura. La sfiducia diventa sempre più spesso vera tensione. Non possiamo stare in superficie. Non dobbiamo dare l’idea che siamo persi nel mucchio anche noi, in un teatrino che si agita a distanze stellari dal senso comune. Dobbiamo farci vedere sui problemi. Dove c’è un problema dobbiamo esserci.
Chiarire e chiarire sempre chi ci ha portato fin qui, qual è il senso della nostra posizione oggi e che cosa abbiamo in mente noi per costruire un percorso nuovo. Mentre chiedo di non sottrarci, in nessun luogo, al confronto con le realtà più difficili e scomode, chiedo anche che si apra in ogni luogo una fase di contatti e di dialogo con i protagonisti sociali e civili e con le autorità morali.
Se tocca a noi, è tempo di incontrare anche chi non abbiamo incontrato fin qui! Mettiamoci infine un po’ di sicurezza, di solidità e di fiducia. Ce lo dice la tragica realtà del terremoto che è anche una, seppur terribile, metafora. Non è detto che la buona politica debba restare sotto le macerie dei problemi.
Assieme ad un luogo, ad una città, ad una fabbrica che rinasce può rinascere anche il rapporto fra una buona politica e i cittadini. Fuor di metafora, ecco dunque, la nostra fiducia, la nostra certezza: l’Italia e la buona politica riprenderanno la loro strada assieme, dandosi la mano.
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